Il cammino per Santiago portoghese mi è rimasto nel cuore, così ho deciso di tornare di nuovo alla città di San Giacomo dalla Galizia percorrendo il Cammino Francese.
Ma poi chi era questo Giacomo? E che ha fatto per divenire Santo? Tra poco parto per il mio secondo cammino e mi rendo conto di quanto sono ignorante. So vagamente la sua storia ma adesso è arrivato il momento di approfondire l’argomento, gli devo un poco di attenzioni a questo Giacomo.
Wikipedia mi dice che Giacomo era uno dei dodici apostoli di Gesù e questo sarà di sicuro un vivo ricordo per chi ha fatto dottrina o assistito a qualche Messa domenicale.
Figlio di Zebedeo fu uno dei primi martiri cristiani. Venne decapitato nelle persecuzioni indette da Re Erode, nell’anno 42 d.C.
I suoi discepoli trafugarono il corpo da Gerusalemme per portarlo in Galizia, divenendo il protettore dei pellegrini, dei viandanti e dei soldati. Come è proceduta la storia lo sappiamo, la nave è affondata, le spoglie del Santo sono stati scoperte ai tempi di Carlomagno in un campo sotto un cielo di stelle…
Avevo già percorso il cammino per Santiago, e quella sensazione di serenità, di soddisfatta stanchezza mi aveva fatto promettere che sarei tornata.
Avevo provato le belle emozioni del Portogallo e ora per la mia seconda volta ho deciso di affrontare la Spagna e il Cammino Francese.
L’ultimo tratto che da O Cebreiro porta alla tomba di San Giacomo sarà la mia strada.
Santiago de Compostela
Penso che tra poco passeggerò ancora tra i suoi vicoli, rivivrò la sua magia. Mi domando come sarà questo cammino, se ritroverò i silenzi, le affinità tra mente e corpo che già ho vissuto. Cosa troverò lungo il percorso? Che fascino avrà? Come e da cosa mi lascerò travolgere?
Come tutte le prime volte, anche il cammino che si è fatto per primo avrà il sapore delle cose uniche e irripetibili?
Non so darmi risposta, allo stesso tempo non voglio lasciarmi condizionare e mi tolgo dalla testa ogni possibile aspettativa o pregiudizio di sorta.
Preparo la mia partenza per Santiago
Mi preparo sì, perché il cammino richiede un minimo di preparazione.
Bisogna camminare, camminare, camminare. Allenare i polpacci, risvegliare le articolazioni alle caviglie, rimettere in sesto le anche. Poi, dopo, molto dopo, si può partire.
Il mio secondo camminio di Santiago
Per il mio secondo cammino ho deciso di affrontare il percorso classico: il cammino Francese che inizia da Saint Jean Pied Port. Percorriamo però solo gli ultimi 160 km, quelli che da O’ Cebrerio a Santiago de Compostela.
Primo giorno: O Cebrerio – Triacastela.
Sono arrivata a O’ Cebrerio che è già pomeriggio. È un piccolo paesino accoccolato sui monti con un panorama fantastico delle valli sottostanti; costruzioni di pietra rotondeggianti con tetti di paglia chiamate Pallozas ne fanno un centro unico e particolare.
Ma è di fianco all’unica chiesa pre romanica del paese che faccio un incontro importante. Qui è sepolto Don Elias Valina. Costui è stato il parroco del paese e tra la fine degli anni 70 e gli inizi degli anni 80 ebbe un’illuminante idea:
Stanco di vedere i rettangoli di legno che indicavano la via per Santiago che marcivano sotto la pioggia, stanco di dover continuamente indicare la direzione del cammino e stanco di dover suonare le campane della chiesa per aiutare i pellegrini ad orientarsi in mezzo alla nebbia nelle notti invernali, chiese ai cittadini che gli venisse portata in dono della pittura.
Si vide consegnare una latta di vernice gialla, l’unica avanzata da chissà cosa. Con quella prese a disegnare delle frecce sul selciato, sulle pareti delle case, sugli alberi, su ogni posto possibile indicando la direzione del cammino.
Nel tempo i pellegrini e i volontari hanno fatto il resto, unificando tutto il percorso lungo sotto il segno delle famose frecce gialle.
Resto qualche minuto davanti a Elias. Sarà solo una leggenda che l’unica vernice avanzata fosse gialla o è stato proprio lui a chiederla di quel colore? Un colore che si vede anche di notte alla sola luce della luna, un colore che ricorda l’energia solare, un colore positivo, allegro, ma anche che accenna ad una vaga spiritualità? Chissà.
Saluto il buon parroco e seguo la prima freccia gialla che mi indica la direzione e mi dice che a Santiago mancano 160 km.
Grandi nuvole nere incombono davanti a noi quando incontriamo la statua del pellegrino che avanza lungo il cammino lottando contro il vento. Siamo in alto, e anche noi procediamo contro un’aria fredda che spira impetuosa. La statua è stata immortalata in un atteggiamento che migliaia di altri pellegrini hanno compiuto o compiranno. Sembra quasi che voglia insegnarci, oppure spronarci a continuare. Accolgo l’invito e avanzo di buon passo.
Secondo giorno: Triacastela – Sarria
La Galizia è un susseguirsi di verdi colline. L’aria è fresca, umida pervasa da un odore particolare che ancora non riesco ad individuare. In mezzo al niente di un piccolo boschetto di querce sbuca una costruzione, rivendica la qualifica di galleria d’arte.
Poco oltre l’entrata c’è un piccolo tavolo con una brocca d’acqua, dei bicchieri. Dentro ci sono quadri, piatti, un quaderno dove segnare la visita scrivendo il proprio nome, la provenienza. Starei a sfogliarlo per ore ma il nostro percorso è ancora lungo.
Lasciamo il bosco e la natura cambia, qua e là nel verde luccicante spiccano grandi arbusti di ginestre gialle. Punteggiano l’orizzonte, costellano il panorama. Macchie di colore che ci sfiorano, ci accompagnano.
Attraversiamo piccoli insediamenti, mucchietti di case con adiacenti le stalle, orticelli coltivati con cavoli, insalate, pomodori.
Ora lo riconosco perfettamente: assieme all’odore di sterco di mucca, intriso a quello di stalla c’è nell’aria odore di latte appena munto, di cagliata, di formaggio. Difatti in queste zone viene prodotto un famoso formaggio galiziano.
Il latte gocciola dalle forme appese nei cortili, appena fuori dalle delle abitazioni. È una zona rurale, le case sono umili, la gente al nostro passaggio non alza neanche il capo, hanno da lavorare i campi e gestire le bestie, loro.
Dicono che quando piove le strade e i viottoli sono un fiume di paglia e letame. Noi non corriamo questo pericolo, almeno per oggi. Ci saranno trentacinque gradi, il sole spacca le pietre.
Una sosta per un “Corto”
Intanto si è fatta l’ora di uno spuntino, ci vuole proprio un “corto” che rinfreschi.
Un corto è un piccolo bicchiere di birra galiziana, la famosa Estrella. La servono in un bicchiere tondo, con lo stelo. Fa piacere ordinarlo, berlo.
Il costo è minino, un euro, e la quantità è giusta per non aver rimorsi di coscienza… allora il corto si può prendere a tutte le ore, con o senza spuntino. “Facciamoci un corto” diventa un inno di battaglia!
Terzo giorno: Sarria – Portomarin
Ho dormito male, un sonno agitato e per niente riposante. Ma due cose che subito incontriamo mi strappano un sorriso: un nido di cicogna abbarbicato su un lampione e un albero secolare che sembra fare da sentinella al percorso.
Procediamo e sento nell’atmosfera un qualcosa che non so ben definire: non è un odore particolare o un tanfo. È più una sensazione che mi accompagna da quando siamo partiti da Sarria.
100 km da Santiago
La sensazione si fa più forte. Si avverte un dinamismo, un’energia diversa che assomiglia più ad una sorta di confusione. I pellegrini chilometro dopo chilometro si fanno più numerosi, aumentano i ciclisti che ci sfrecciano accanto, veloci e silenziosi.
Poi capisco. Ci stiamo avvicinando ai 100 km a Santiago, il minimo di chilometri che un pellegrino deve percorrere per avere diritto alla Compostela.
Ecco l’indicazione. Imbrattata, depauperata, sfregiata. Dicono che hanno rubato la mattonella migliaia di volte, difatti questa luccica tanto è nuova. Resto basita.
Questa fra le mille e mille colonnine di cemento che abbiamo incontrato dovrebbe essere quella meglio tenuta, omaggiata, se vogliamo riverita. Invece no. L’animo umano ancora una volta mi sorprende per la sua bruttura. Sopratutto dai pellegrini che dovrebbero avere a cuore una cosa simile.
La foto è di rito, riparto con l’animo triste, qualcosa si è rotto, l’incantesimo sfumato via.
Più vado avanti e più noto come la gente di Galizia abbia aperto le porte di casa ai pellegrini.
Ci sono banchetti allestiti nei giardini, mettono a disposizione i loro bagni. A questo non posso resistere.
Faccio pipì, mi lavo mani e viso, poi prendo dal tavolo una banana e lascio due euro. Saranno pochi? Saranno troppi? La signora mi ringrazia e mi sorride.
Mi siedo fuori dalla casa e mi mangio la banana. È un continuo via vai di persone che entrano, mangiano, bevono, ridono, urlano, si chiamano l’un l’altro a gran voce.
Dov’è il silenzio? Dov’è la pace e dove sono i rumori dei passi?
Mi sto rimettendo in marcia quando vedo arrivare un cane di piccola taglia con due sporte ai lati del dorso, seguito dal suo padrone. Hanno i colori di zaino e sporte uguali. La gente ferma il cane, lo vuole accarezzare. Il padrone è orgoglioso, dice che il cane trasporta il suo cibo, la sua acqua.
Mi domando se il cane è d’accordo… marciare per giorni e giorni, dormire all’aperto o in ostelli, trasportare sulla schiena un peso che con i chilometri diventa eccessivo… o forse, il cane, vuole davvero andare a pregare sulle spoglie del santo Giacomo?
È pomeriggio inoltrato quando vediamo dall’altra parte di un fiume, sopra una collina, la città che ci ospiterà per la notte: Portomarin.
Prima, questa città della Galizia sorgeva dove ora stanno le acque del fiume. Hanno smontato la chiesa del paese pietra dopo pietra e l’hanno ricostruita in alto, poi intorno le case e il paese tutto.
Per entrare ci aspetta una scalinata, lunga e irta. Proprio quello che ci vuole per finire in bellezza la giornata.
Ci facciamo coraggio e affrontiamo l’ultima fatica, ridendo.
Quarto giorno: Portomarin-Palais do Rei
Il mattino dopo Portomarin è un paese fantasma, le stradine che svaniscono nella nebbia. Peccato che la chiesa sia chiusa, l’avrei vista volentieri. Mi prendo un caffè al bar e mi faccio fare il “sello” cioè il timbro del locale sulla Credenziale.
Il cammino continua su una collina per ore, la nebbia rimane sotto di noi, una nuvola di cotone che copre la terra. Siamo un esercito di persone in marcia.
Incontriamo piccoli mercatini di souvenir, decine e decine di conchiglie fanno mostra di sé. Se vogliamo ci danno anche abbracci gratis.
Dopo un viottolo che si snoda dentro ad un bosco entriamo in una piccola chiesa per deporre il sello.
C’è un signore seduto dietro una scrivania. È cieco. Tiene saldo in mano il timbro. Ognuno di noi gli prende la mano e gliela pone sopra lo spazio libero. Lui allora aziona il timbro.Sono movimenti lenti, calmi. C’è un che di reverenziale in questo rito che si ripete. Mi chiedo quante mani toccherà ogni giorno, quanti Buen Cammino augurerà lui che resta seduto qui e del cammino, forse, si accontenta di apporre timbri.
Esco alla luce e stringo gli occhi, ci vuole un corto, subito, senza dubbio.
Quinto giorno: Palais do Rei – Arzua
Alla fine doveva succedere. Camminiamo lungo un viottolo pieno di radici, buche. Siamo in mille, uno dietro l’altro o a gruppetti. Cammino vicino a due compagni di viaggio, da giorni formiamo un trio, siamo inseparabili.
Ci aspettiamo se uno rallenta e anche se ci distanziamo ci seguiamo con gli occhi, rispettosi della solitudine degli altri ma pronti in caso di bisogno o pronti a ricongiungerci vogliosi di scambiare due parole.
Non so come accade ma l’ennesimo ciclista per poco non mi coglie in pieno.
È arrivato sparato, silenzioso, sentiamo solo lo stridere dei freni, il suo imprecare. Per evitare una buca perde il controllo della bicicletta e mi evita per un soffio. È di mezza età, di corporatura robusta. Perché non andate più piano, gli chiedo, perché non suonate un campanello per avvisare della vostra venuta?
Lo scambio di parole non è molto cortese, da una parte la pazienza si è esaurita, dall’altra ci si crede padroni della strada.
L’uomo riparte, più veloce di prima. Tanto lo rincontriamo, ci diciamo, magari in una taverna a mangiarsi una tortilla, a bersi una tazza di vino tinto.
Succede così da giorni… abbiamo rincontrato il cane con le sporte, la coppia di australiani con le pentole appese allo zaino, una signora inglese con i guanti bianchi e il compagno.
Siamo meteore che vanno e vengono, che si allontanano per poi ricongiungersi.
L’episodio del ciclista però mi sprona a chiedermi cosa ci sia di bello in questo percorso. A casa mi ero detta di non avere aspettative, sentivo che non avrei trovato la stessa atmosfera del cammino Portoghese. Ma allora, mi chiedo, dove è il senso di questo viaggio?
La risposta mi si presenta dopo circa sei chilometri. Troviamo l’ennesima chiesa. Sono stanca, ho dolore ad una gamba, ho voglia di togliermi di dosso questa polvere, ho voglia di sedermi.
Pregusto già il silenzio e il fresco che ci sarà all’interno. Ma quello che mi aspetta non posso neanche immaginarlo.
La chiesa è spoglia, un modesto altare, panche di legno, soffitto e pareti di pietra. Mi siedo e volgo lo sguardo. In una nicchia c’è Gesù sulla croce. Ha il braccio sinistro inchiodato, il destro è rivolto in basso, teso in aiuto a chi è sofferente, in aiuto a chi è affaticato, a sostenere chi è stanco. Ecco il senso.
È l’umanità, il senso di questo percorso. L’umiltà di chi soffre ma vuole aiutare il prossimo, di chi non pensa a sé stesso ma all’altro. Penso di non aver mai visto e sentito sentimento così bello e profondo. Lascio la chiesa e finalmente mi sento bene, in pace.
Sesto giorno: Arzua – San Paio
È ancora notte quando mi sveglia la pioggia. Scrosci violenti rinforzati dal vento si abbattono sui vetri. Anche questo doveva succedere, dopo giorni e giorni di sole.
Partiamo incappucciati sotto le mantelle, i pantaloni da pioggia. Dopo neanche due chilometri non so più se è peggio l’acqua che scende dal cielo o quella che rimbalza sul selciato. Ci guardiamo e non ci resta che metterci a ridere. Torniamo bambini e ci inzuppiamo i piedi nelle pozzanghere, camminiamo sui torrentelli d’acqua. Dopo tre ore non ridiamo più, siamo tutti infreddoliti, il vento poi sbatte la mantella tra le gambe e rischiamo di cadere ad ogni passo. Ci fermiamo in una taverna e aspettiamo che la pioggia calmi.
Ripartiamo alla spicciolata, sono l’ultima assieme ad altre due compagne. La pioggia si è calmata e alla fine spiove. Camminiamo veloci per recuperare ma poi ci rendiamo conto di esserci perse. Da quanto non vediamo più le frecce gialle? Dovevamo incontrare un piccolo paese ma noi non l’abbiamo neanche sfiorato né visto da lontano. Anche un’altra signora si è persa. È inglese, dice che è molto stanca, le fanno male i piedi. L’aiutiamo a portare lo zaino, intanto cerchiamo di capire dove siamo con l’aiuto di google maps. Decidiamo di attraversare un campo, da quella parte dovremmo ritrovare il cammino.
Nonostante la stanchezza, la pioggia, i piedi bagni, il corpo sudato sotto la mantella di plastica sono serena e quando alla fine troveremo il paese e il resto del gruppo brinderemo con un corto, due corto, tre corto e niente mi sembrerà più buono.
Settimo giorno: San Paio – Santiago
Scendiamo per colazione e il giornale ci ricorda il diluvio del giorno prima.
Oggi è l’ultimo giorno di cammino in Galizia, è nuvolo ma non piove. Oramai siamo prossimi. Saliamo sul monte Gozo, il monte che sovrasta Santiago dal lato ovest. Se fosse limpido vedremmo le torri dei campanili, la città intera stesa sotto il monte.
Una marea di gente si sta avvicinando, ma c’è silenzio. Costeggiamo una recinzione dove i pellegrini hanno attaccato centinaia e centinaia di croci.
Arriviamo in vetta. Ci accoglie il monumento eretto in occasione della visita a Santiago del Papa Giovanni Paolo II, non molto bello per la verità. E poi non ci resta che scendere incontro alla città.
Eccola Santiago, con i suoi ciottoli e le sue guglie. La sua gente che canta per strada e quella che cammina scalza con i piedi fasciati. Quella dei negozi di souvenir e quella degli abbracci e delle lacrime.
L’Europa è nata in pellegrinaggio a Compostela, recita una delle tante scritte che incontriamo.
E ancora la piazza ci accoglie. Ci avvolge e ci lecca le ferite.
“La meta è il cammino”, penso con una certa malinconia. E mai parole furono più veritiere.
Il rito vuole che dopo la messa del pellegrino di vada a pranzo da Manolo. Nel caos del ristorante mi bevo un altro corto. Ma quanti ne avrò bevuti?
Ripenso al ciclista, chissà se dopo, in piazza o per le vie della città, lo rincontrerò. E se così sarà, cosa gli dirò? Ma al mio arrivo ho capito che sarebbe stato impossibile rivederlo.
Buen Camino a tutti!
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